venerdì 15 febbraio 2008

L’ambientalismo di Walter

Walter Veltroni ha aperto il suo “Discorso per l’Italia”, parlando di ambiente e di quello che ha chiamato “l’ambientalismo del fare”, espressione che ha utilizzato per sostituire l’altra, “l’ambientalismo del sì”, che aveva formulato nel suo discorso al Lingotto nel giugno del 2007 e che assai poco era piaciuta al mondo ambientalista perché percepita come una ingiusta divisione, pregiudiziale e astratta, fra buoni e cattivi.
Le coordinate politiche a cui le due locuzioni fanno riferimento, però, non sono cambiate; quello che è cambiato è il makeup comunicazionale: se con l’“ambientalismo del sì” veniva puntato il dito contro i troppi interessi particolari che terrebbero sotto scacco lo sviluppo del paese, con l’“ambientalismo del fare” viene proposta la tesi, peraltro già contenuta nella mozione Fassino del II Congresso dei DS del 2002, secondo la quale l’evoluzione scientifica e il progresso tecnologico sarebbero ormai tali da consentire risposte risolutive alle questioni ambientali e pertanto non rallentare ma, al contrario, accelerare si deve lo sviluppo economico che «può e deve sposarsi con la qualità della vita».
L’ambizione, si dice in maniera esplicita nel discorso di Spello, è quella di conciliare l’incremento del pil, la qualità della vita e la tutela della natura, perché «una difesa dell’ambiente che si riduca alla moltiplicazione di veti contro la crescita è sterile e perdente». La grande nemica è la paura del futuro che deve essere allontanata per poter guardare in avanti con speranza e fiducia: come uno scoglio il “Discorso” si oppone ai marosi agitati delle apocalittiche distopie che, in questo inizio millennio, affollano le nostre più cupe visioni sul domani.
Per poter praticare questo ottimismo, però, Veltroni ha dovuto escludere dall’orizzonte del suo sguardo l’idea che possano esistere limiti allo sviluppo. Non so se questa esclusione gli sia risultata facile, o addirittura naturale, in virtù della lunga militanza in partiti d’ispirazione comunista che a un progresso illimitato, e identificato con lo sviluppo economico, legavano la visione delle “magnifiche sorti e progressive” dell’umanità; fatto sta che questa assenza oggi si salda assai bene con le visioni liberiste e con l’assoluto bisogno da parte della finanza internazionale di avere a disposizione, sempre, un futuro da ipotecare. Sul futuro, sul modo di trattarlo, si scontrano infatti due paradigmi: da un lato lo sguardo ecologico che, contemplando nelle dinamiche evolutive dei sistemi anche la possibilità della loro autodistruzione, afferma la necessità di un principio di responsabilità nei confronti delle prossime generazioni; dall’altro quello della finanza che questa prospettiva non può prendere in considerazione, perché nella esistenza di un futuro inesauribile, risultato di una crescita economica continua, e dalla conseguente capacità di trasferire nel domani i debiti contratti nel presente che tanto più piccoli e trascurabili saranno quanto più grande sarà la sperata ricchezza futura, vede il proprio fondamento.

Nel “Discorso” Veltroni tenta un ambientalismo che, una volta privato della consapevolezza dei limiti dello sviluppo, può accettare la conciliabilità della crescita del pil con la tutela ambientale e la qualità della vita (eppure non è solo dagli ambientalisti che vengono le critiche al pil come strumento valido per misurare la ricchezza delle nazioni: il cosiddetto “paradosso di Easterling” segnala come nei paesi occidentali si sia verificato a partire dagli anni Settanta un disaccoppiamento fra la crescita del prodotto interno lordo e la crescita della soddisfazione percepita). Rincorrendo un futuro radioso, scompare nella prospettiva veltroniana anche il principio di precauzione: il nostro destino sembra infatti venire completamente affidato alla scienza e alla tecnologia disegnate come enti autonomi e svincolati da ogni pressione e controllo economico e finanziario. E scompare ogni diffidenza nei confronti delle dipendenze indotte dalle tecnologie e delle dinamiche paradossali e parossistiche che vengono da loro generate e in cui è difficile cogliere le differenze e i confini fra male e rimedio, fra vantaggio e danno.
Anche la “civiltà del rischio” scompare nel “Discorso di Spello” come pure la consapevolezza che la gestione della paura sia divenuta ormai a livello globale fonte di guadagno e prevale così, nella visione di Veltroni, un mondo da misurare con il metro delle medie statistiche: «la nostra vita media è più lunga» perché «l’acqua, l’aria, il cibo sono più controllati»; poco importa se questo si scontra con l’evidenza che il benessere non si spalma in maniera uniforme sull’umanità, ma che, al contrario, per garantire il benessere dei pochi su cui si possono calcola-re le medie, i più vengono semplicemente lasciati fuori dal computo. Se la media è la misura di tutto allora la difesa del territorio da parte di chi ci abita diventa nimby, una egoistica perturbazione localistica, un’increspatura da livellare sotto il peso delle cifre.
La recessione mondiale ormai in atto impone che le questioni ambientali debbano, come al solito, essere sacrificate in nome della crescita; come dirlo a un elettorato che dei rischi ambientali diventa sempre più consapevole è uno dei due problemi che Veltroni si è posto; l’altro è quello di tranquillizzare imprese, banche e investitori internazionali sulla sua volontà di non fermare le grandi opere, i termovalorizzatori, i rigassificatori, di fare la TAV e riprendere magari anche l’idea del Ponte e del nucleare a proposito del quale già Bersani si era detto favorevole.
Il discorso di Veltroni conferma che le ragioni vere per cui è si è sfaldata la maggioranza che sosteneva Prodi vanno ricercate non certo nell’umbratile Mastella, ma nel documento di sfiducia a Pecoraro Scanio e nell’illuminante allegato dossier dell’enel in cui si asserisce che «i costi del “non fare”» dovuto all’intervento del Ministero dell’Ambiente «nel solo settore energetico sono già valutabili in 40 miliardi di euro, il 3 % del pil, e raggiungeranno i 200 miliardi nel 2020, qualora si proseguisse con il medesimo indirizzo; si tratta del blocco della costruzione di nuove centrali a carbone, dei rigassificatori, dei termovalorizzatori, della costruzione di nuove linee di trasporto dell’energia, del tentativo di bloccare qualsiasi partecipazione dell’Italia allo sviluppo del nucleare sicuro».

venerdì 9 novembre 2007

Intervento al Congresso regionale di Legambiente Puglia, 10 novembre 2007

Quando l’anno scorso stava per essere abbattuto il complesso di Punta Perotti abbiamo messo in rete, come sapete, le immagini riprese da una webcam a scandire il tempo che mancava all’abbattimento. Era un modo per richiamare l’attenzione su di noi, sulla nostra terra, sulla Puglia. Era come se volessimo dire: “Guardate che anche da noi succede qualcosa di buono, a volte”.
Perché chi ci guarda da fuori, sapete anche questo, ci vede come una regione che è fra le quattro a rischio mafia (anche se la nostra mafia, più che di morti ammazzati, che pure non mancano, è fatta di colletti bianchi, di amoralità familistica, di riti peloritani).
Chi ci vede da fuori vede una regione che ospita le tre centrali elettriche più inquinanti d’Italia e che detiene il record degli accessi negati ai litorali. Vede una regione il cui sistema educativo e formativo è dominato da nepotismi e baronie e scosso da continui scandali come quello dell’Università, con gli esami comprati e venduti per soldi o sesso.
Chi ci guarda da fuori ha visto la grande mobilitazione delle primarie del 2005 e della elezione di Nicki Vendola. Ma ha visto anche una regione il cui governatore, ormai a metà mandato, ammette malinconicamente: “Ho il potere ma non cambia quasi nulla”.
Chi visita il nostro territorio resta colpito dal vedere, accanto a tante bellezze, la catastrofe antropologica che sta distruggendo il nostro paesaggio che è fatto ormai di abusivismo, di periferie anonime e infinite, di non luoghi e iperluoghi che si moltiplicano, di vecchie aree industriali in abbandono che invece di essere bonificate e rivitalizzante vengono sostituite da nuove che verranno a loro volta abbandonate alla fine della vita economica degli impianti in un continuo rincorrere i finanziamenti pubblici.
Potrei, come tutti voi, continuare in questo elenco chissà per quanto ancora.
Ci preoccupiamo del modo in cui il mondo ci vede: è naturale che sia così. È nei confronti del mondo che ci sentiamo responsabili del nostro territorio.

Ma oggi vorrei provare a coinvolgervi in un esercizio che mi pare meno comune fra noi ambientalisti: invece di chiederci come ci vede il mondo vorrei invitarvi a riflettere su come appare il mondo visto dalla Puglia.
Che poi, in un mondo sempre più globalizzato, è come chiedersi: “Di che cosa possiamo vivere, come vogliamo vivere?”.
Questo mondo ci fa paura? Riusciremo a reggere il confronto con gli altri paesi? Abbiamo una collocazione nel mondo, un’identità forte? Che cosa possiamo offrire? Che cosa ci aspettiamo che possa arrivare sulle nostre spiagge? Che cosa vogliamo che parta dai nostri porti?
Come possiamo contribuire alla bellezza del mondo?

Se ci poniamo queste domande ci accorgiamo che ad esse pochi hanno già dato molte risposte escludendo molti dal poter dare un qualche contributo. E sulla base delle risposte di quei pochi sono state fatte scelte politiche e strategiche che vanno assai al di là delle deleghe che gli elettori hanno dato ai loro rappresentanti.
Si tratta di scelte che spesso non sono neanche state discusse nei luoghi che dovrebbero essere deputati a ciò. Scelte che sono state date come inevitabili, scontate, che sembrano non prevedere alternative all’interno dell’orizzonte di ciò che si immagina sia lo stato delle cose.
Eppure si tratta di scelte di rilievo straordinario, oggi lo vediamo bene perché il mondo è cambiato, è diventato piccolo e fragile. Quello che fino a pochi anni fa sembrava riguardare esclusivamente le realtà locali oggi riguarda immediatamente e senza mediazioni l’intero pianeta.
Per esempio la Puglia ha scelto di produrre molta più energia di quanta non ne consumi. E ha scelto anche di sfruttare il suo essere un ponte lanciato verso l’Oriente per proporsi come grande terminale per le merci in arrivo e in partenza (più per quelle in arrivo, in verità, che per quelle in partenza). Queste scelte non ricadono in capo all’attuale governo regionale che le ha ereditate dal complesso politico economico che ha governato la nostra regione con Distaso e Fitto e che non ha smesso di governare la Puglia (vedi la dichiarazione di Vendola che ho citato prima), tant’è che l’attuale amministrazione non ha potuto che farle proprie, certo cercando in maniera indubbiamente meritoria di attenuare molti degli aspetti negativi.
Lo sappiamo che queste scelte hanno conseguenze sociali, economiche e ambientali molto grandi.
Erano possibili altre scelte? Non è una domanda retorica e non cerco risposte astratte. Mi chiedo se gli equilibri sociali, politici ed economici, se le aspettative dei singoli e delle organizzazioni, se le agenzie di socializzazione e se il sistema di valori potevano consentire altre risposte. E soprattutto mi chiedo se la classe dirigente che prende queste scelte sappia guardare sufficientemente lontano per garantire pace e prosperità.

L’ambientalismo è diventato ormai uno sguardo imprescindibile per capire il mondo.
Nel documento congressuale si parla giustamente di nuova centralità dell’ambientalismo.
An Inconvenient Truth ha mostrato un pianeta che si sta riscaldando troppo e troppo in fretta. Ha mostrato cosa succederà quando si scioglieranno le barriere di ghiaccio che trattengono i ghiacci terrestri della Groenlandia e dell’Antartide e questi scivoleranno in un oceano sempre più caldo il cui livello comincerà a salire velocemente. Questo accelererà ulteriormente lo scioglimento delle barriere che lasceranno passare sempre più ghiaccio terrestre in mare. Basterà un aumento medio della temperatura del pianeta di tre gradi per far sì che intorno alla metà del secolo (ma secondo alcuni assai prima) tutto il ghiaccio si sarà sciolto o finito in mare. Il livello delle acque si sarà allora sollevato di sei metri.
E i porti pugliesi saranno tutti sommersi.
Ma anche se non lo fossero avrebbero perso, insieme a tutto il Mediterraneo, l’attuale centralità nel sistema delle rotte commerciali in favore del passaggio a nord ovest: perché mai passare da Suez se si può attraversare l’Artico? I nostri politici sono capaci di vedere così lontano?

Eppure commetteremmo un errore se pensassimo che il sistema economico possa essere spaventato da prospettive catastrofiche. L’abbiamo visto con l’uragano Katrina. Lo stiamo vedendo in Iraq. In Italia l’avevamo già visto con il terremoto in Irpinia e persino con quello in Friuli (da cui è cominciato il boom del Nord-Est). Lo vediamo nelle scelte come quella del mose. C’è una intera filiera che a partire dai disastri riesce a sfruttare le emergenze che ne conseguono.
Nell’emergenze e nei disastri, come nella sospensione delle regole, il capitalismo più o meno sano, più o meno colluso con la criminalità organizzata, vede moltiplicare le occasioni di profitto. Legambiente lo sa bene. Noi in Puglia lo sappiamo bene.
C’è un eccesso di ottimismo nel documento congressuale quando si dice che l’iperliberismo è stato sconfitto. Io non ne sarei tanto sicuro e, soprattutto, anche se fosse vero, dovremmo comunque prendere atto del fatto che un gran numero di garanzie e di diritti sono già stati profondamente intaccati dagli anni della Tatcher, dei Bush e di Berlusconi. Purtroppo non ripartiamo da zero, ma da molto sotto.

Nonostante ciò noi sappiamo anche che è con le forze dell’economia e del capitalismo che dobbiamo confrontarci se non per governare la transizione, almeno per cercare di orientarla. Sappiamo che sono le imprese che creano ricchezza, lavoro, occupazione, a volte persino innovazione. Con esse, almeno con alcune di esse, è giusto tentare alleanze. Allen Ginsberg una volta disse: “Il mondo è una montagna di merda: se vuoi cambiarlo devi prenderlo a manciate”. Ma che si tratti di giri di valzer o di convergenze strategiche non dobbiamo mai dimenticare che queste alleanze hanno un prezzo caro sotto l’aspetto simbolico e comunicazionale.

Un’altra cosa che, come ambientalisti, facciamo spesso è quella di credere che l’interesse collettivo sia un dato evidente, senza bisogno di ulteriore specificazione.
Ma quanto è comune il bene comune?
Nel documento congressuale si parla di “patriottismo dolce”: un’espressione molto bella, nel suo cercare di sfumare una contraddizione spesso evidente fra gli interessi di piccole comunità che rifiutano opere che a loro appaiono dannose, ma la cui utilità diventa visibile osservando la cosa su una scala più ampia. Dobbiamo tenere come riferimento la scala nazionale, in questo senso non possiamo essere “quelli che dicono sempre no”.
Ma definire come prioritari, seppure in maniera “dolce”, gli interessi nazionali, che posizioni ci fa assumere di fronte al resto del mondo? Quando noi diciamo che le ricchezze del pianeta sono finite, diciamo anche che arriverà inevitabilmente il momento in cui la ricchezza potrà essere solo divisa, non più creata. E questo momento, oggi che il picco di produzione del petrolio sembra superato, è probabilmente assai prossimo. Come conciliare allora il legittimo desiderio di migliorare le proprie condizioni di vita da parte degli italiani con la consapevolezza che tutto quanto avremo in più sarà inevitabilmente tolto ad altri?

“Ambientalismo del sì” è forse uno slogan felice, ma non può farci dimenticare che le questioni in argomento sono che cosa intendiamo per “crescita”, “sviluppo” e “progresso”.
Come si può continuare a parlare di crescita se ci si riferisce a quella dei consumi quando questa, ormai con evidenza clamorosa, non può che sfociare nell’estinzione della specie umana o in nuovo medioevo? E come si può pensare di continuare ad utilizzare il PIL come strumento di calcolo della ricchezza di un paese e come base degli indicatori finanziari quando il prodotto interno lordo si alimenta e cresce anche grazie ai danni e ai disastri che proprio la crescita produce e, persino, del pasticciato tentativo di porvi rimedio?
Bisognerebbe spiegare in maniera chiara che la crescita economica della Campania dell’era del Commissario per l’emergenza rifiuti è stata alimentata proprio da quella emergenza e proprio dalla crescita dei rifiuti.
Vogliamo che entri nel vocabolario ambientalista la parola “crescita”? Ci sto, ma a patto che si utilizzino indicatori capaci di porre il segno meno davanti all’incendio di una foresta o allo speco di acqua ed energia che invece oggi fanno lievitare gli introiti degli enti gestori. Facciamo in modo che i morti sul lavoro pesino pesantemente in negativo sul PIL.
Ma qual è lo scopo degli indicatori finanziari? Incanalare i flussi finanziari. Attirare il denaro dove potrà produrre altro denaro. Ad un ambientalista (ma anche ad una persona qualunque) perché dovrebbero stare a cuore simili indicatori? Quello che può interessargli sono indicatori utili a segnalare se in un paese si riesce ad essere felici.
È dagli anni Settanta che si verifica in tutti i paesi occidentali un paradosso: più cresce il reddito e meno la gente è felice. Gli economisti lo chiamano “paradosso di Easterlin”
Si tratta di un paradosso perfettamente derivabile dalla teoria neoclassica: per i marginalisti ogni unità in più di un certo bene o fattore di produzione crea minore utilità (cento euro sono assai più utili per poveraccio che per un ricco) quindi per ottenere una crescita costante della soddisfazione c'è bisogno di quantità crescenti di beni e la curva che ne risulta sarà asintotica, dunque:
1) una semplice crescita lineare del PIL provocherà inevitabilmente un aumento di insoddisfazione
2) anche un incremento esponenziale della disponibilità di beni e servizi implica al limite un incremento infinito di insoddisfazione
Purtroppo l'economia politica è una disciplina sempre più trascurata, "troppo filosofica". Molto meglio l'economia aziendale e la scienza delle finanze

Il documento congressuale è chiaro. La scelta di Legambiente è chiara.
E con esso mi trovo in ampia sintonia. C’è un aspetto però che non condivido, anzi più che un aspetto si tratta di un modo di porre.
Le criticità dell’impianto teorico-politico che io ho cercato qui di evidenziare, nel documento vengono invece sfumate. Non è che non capisco le ragioni del perché di questa scelta, ma non lo condivido perché è proprio nelle criticità, nel non avere risposte precostituite, nel sapere che le soluzioni vanno trovate di volta in volta, insomma nell’approccio non ideologico che c’è la bellezza della sfida che Legambiente si pone.

La questione cruciale, quella su cui tutti noi dobbiamo seriamente riflettere, è che se è vero che il mutamento del disegno istituzionale in atto in Italia, la trasformazione dei partiti in organizzazioni leggere, assegna un ruolo nuovo alle associazioni, un ruolo di difesa e conservazione degli interessi collettivi e per certi versi anche un ruolo di organizzazione della partecipazione democratica, dobbiamo essere in grado di rispondere a questa sfida dandoci strutture adatte.
Abbiamo mi pare due alternative agire come una lobby (lo dico nel senso buono della parola) capace di organizzare gli interessi “puntuali”, oppure essere portatori di una visione del mondo che veda nella democrazia e nella partecipazione una assunzione collettiva di responsabilità, più che una mobilitazione a difesa di diritti veri o presunti.
Ecco io ho l’impressione che il documento congressuale oscilli fra questi due punti di vista, propendendo per il secondo ma forse temendo che oggi Legambiente non sia in grado di essere che il primo.
È un ambientalismo difficile quello di Legambiente, ma è proprio per questo che ho scelto di starci.

mercoledì 4 luglio 2007

Ambientalismo del sì o del no

È passata ormai una settimana dal discorso al Lingotto con cui Veltroni ha voluto dividere il mondo dell’ambientalismo in “quelli del sì” e “quelli del no”. Non mi pare però che da quel mondo siano arrivate reazioni significative né di plauso né di condanna, né che si sia aperto un dibattito nelle e fra le varie associazioni ambientaliste per capire se quella classificazione abbia un senso e se sì da che parte della linea di demarcazione si è disposti a collocarsi. Eppure sarebbe una discussione assai utile e non solo per gli ambientalisti.

Personalmente non credo sia mai esistito un “ambientalismo del no” e non credo possa esistere un “ambientalismo del sì” se con questa espressione vogliamo indicare quello che, secondo Giovanni Valentini, è «capace di coniugare sviluppo, crescita economica e qualità ambientale», quello che, sempre Valentini con involontaria ironia, chiama «ambientalismo sostenibile» (sostenibile per chi, per chi inquina?)
Non credo insomma che la distinzione segnata da Veltroni abbia granché senso, piuttosto penso che l’illusione della sua esistenza possa nascere da un raggiro terminologico o da una illusione tecnicistica.

«Io credo nel progresso. Non credo nello sviluppo»
“Sviluppo” e “crescita” sono due parole che possono essere usate in molte accezioni e, per questo che a volte sembrano capaci di mettere tutti d’accordo.
La questione è tutta lì: che cosa intendiamo per “crescita”, quali indicatori usiamo per misurarla e, soprattutto, qual è lo scopo di tale misura.
Come si può continuare a parlare di crescita se ci si riferisce a quella dei consumi quando questa, ormai con evidenza clamorosa, non può che sfociare nell’estinzione della specie umana o in nuovo medioevo?
E come si può pensare di continuare ad utilizzare il PIL come strumento di calcolo della ricchezza di un paese e come base degli indicatori finanziari quando il prodotto interno lordo si alimenta e cresce anche grazie ai danni e ai disastri che proprio la crescita produce e, persino, del pasticciato tentativo di porvi rimedio?
Bisognerebbe spiegare in maniera chiara che la crescita economica della Campania dell’era del Commissario per l’emergenza rifiuti è stata alimentata proprio da quella emergenza e proprio dalla crescita dei rifiuti.
Vogliamo che entri nel vocabolario ambientalista la parola “crescita”?
Ci sto, ma a patto che si utilizzino indicatori capaci di porre il segno meno davanti all’incendio di una foresta o allo speco di acqua ed energia che invece oggi fanno lievitare gli introiti degli enti gestori. Facciamo in modo che i morti sul lavoro pesino pesantemente in negativo sul PIL.

Ma qual è lo scopo degli indicatori finanziari? Incanalare i flussi finanziari. Attirare il denaro dove potrà produrre altro denaro
Ad un ambientalista (ma anche ad una persona qualunque) perché dovrebbero stare a cuore simili indicatori? Quello che può interessargli sono indicatori utili a segnalare se in un paese si riesce ad essere felici.
È dagli anni Settanta che si verifica in tutti i paesi occidentali un paradosso: più cresce il reddito e meno la gente è felice. Gli economisti lo chiamano “paradosso di Easterlin”

Naturalmente ci sono persone che hanno visto cresce il loro reddito e con quello il loro tasso si soddisfazione. Gente come Corona, Lele Mora, furbetti vari, calciatori, veline, direttori strapagati di giornali che non compra nessuno, politici, imprenditori fortunati e ammanigliati. Ma questo fa solo media.

E qui veniamo ad un altro punto dolente del discorso di Veltroni: il modo in cui ha tentato di conciliare meritocrazia ed equità.
Chi può non credere all’importanza di riconoscere il merito? Chi può non desiderare che il giusto compenso sia dato a chi lavora duramente? Un sacco di gente. Per la semplice ragione che riconoscere pienamente il merito comporta il rifiuto di ogni privilegio iniziale: la meritocrazia non richiede nessuna altra misura per essere equa, lo è di per sé.
Tutti alla partenza con le stesse opportunità: nessuno deve essere condannato a partire nella vita con la certezza della sconfitta. Ma pensate che in Italia cose del genere si possano dire se non per scherzo o in maniera puramente retorica?

Così Veltroni ha pensato di citare Olof Palme: «Bisogna fare la guerra alla povertà non alla ricchezza» dimenticandosi di dire che quella frase appartiene ad un’epoca che non esiste più, in cui si credeva che le risorse del pianeta fossero inesauribili, e che oggi in Occidente non solo non facciamo la guerra ai ricchi ma la facciamo ai poveri, a tutti quei miliardi di persone miserabili sulle spalle delle quali grava la nostra ricchezza.
Se l’economia cresce, dice il candidato alla leadership del Pd, tutti avranno più possibilità: la marea che monta fa salire tutte le barche.
Veltroni sembra aver trovato l’uovo di Colombo: facciamo dell’ambiente il nuovo motore dell’economia.
Non è purtroppo così semplice: glielo potrebbe spiegare (e spero che si decida a farlo) lo stesso personaggio simbolo di questa rivoluzionaria prospettiva: Jeremy Rifkin.
Non basta far andare le macchine ad idrogeno: anche così continueranno rendere la vita impossibile in città e ad ammazzare un sacco di gente nei weekend. O forse questo non si può dire da quando la FIAT ha rincominciato a macinare utili e a fare pubblicità sui giornali?

Mi resta una curiosità: a chi si riferiva Veltroni quando parlava di “ambientalismo del no”? Forse che non sia una legittima aspirazione quella di chi vuole conservare la propria acqua, il proprio paesaggio, la propria aria, la propria tranquillità, la propria economia e che se la vedono portare via da chi potrà così mettersi in tasca fruscianti banconote?
Mi chiedo cosa farebbero Veltroni e Valentini se per le irrinunciabili necessità della crescita si dovesse costruire davanti a casa loro un bello svincolo a quadrifoglio? Immagino che venderebbero casa e si trasferirebbero altrove.
Loro possono. C’è chi non può e non intende rinunciare a quell’aria, a quel paesaggio, a quel tramonto che costituiscono buona parte della loro ricchezza.
Perché dovrebbero? Forse che il figlio del primario rinuncia ad avvalersi di tutti i vantaggi che può procurargli suo padre?

martedì 26 dicembre 2006

Quando è successo

Quando è successo che quella che sembrava una irreversibile prospettiva di crescita illimitata, la promessa di un futuro sempre migliore e di sempre maggiore abbondanza, la prospettiva del paese del latte e del miele finalmente alla portata di tutti, di questo sogno che diventa realtà declinato in modi convergenti, da una parte dal socialismo delle magnifiche sorti e progressive fintanto che è durato e dall’altra, ancora oggi con cieca ostinazione, dal capitalismo rampante, si è dissolta nella dolorosa consapevolezza della limitatezza delle risorse e della fragilità degli ecosistemi?

E quando è successo che questa finitezza intuita, più che vista, lontana nello spazio e remota nel tempo è diventata palpabile e presente, visibile e incombete, così quotidiana da privarci delle nostre prospettive personali e familiari di un futuro rassicurante?

Gli anni Settanta sono quelli in cui avvenne la prima presa di coscienza (sono di quegli anni i grandi classici dell’ambientalismo da “I limiti dello sviluppo” del Club di Roma, a “Primavera Silenziosa” di Rachel Carson, ma anche gli anni in cui ci abituiamo alle foto prese dallo spazio della Terra), gli anni in cui della presa di coscienza della nostra dissociazione dal pianeta, gli anni dello “spaesamento ecumenico”.

Gli anni Ottanta sono stati gli anni in cui si cominciò a manifestare e poi diventa conclamato il disaccoppiamento fra la crescita del PIL e il grado di soddisfazione personale. Vuol dire che se per avvertire un miglioramento nella propria esistenza, è inizialmente diventato necessario un aumento più che proporzionale del reddito, ora siamo al punto che a fronte di un PIL che continua ad aumentare la qualità della vita percepita è in rapida discesa. La felicità impossibile è diventata una prospettiva di massa per l’Occidente.

Gli anni Novanta, all’indomani del crollo dell’Unione Sovietica e dell’impressionante crescita economica degli Stati Uniti, sono stati gli anni della consapevolezza da parte delle élite della finitezza delle risorse e della necessità di un loro controllo globale.

Il nuovo secolo vede il perseguimento della soddisfazione personale trasformato ormai in ideologia di massa anche in presenza della consapevolezza oramai acquisita della finitezza delle risorse e quindi della logica conseguenza che l’accrescimento della soddisfazione personale comporta la crescita dell’infelicità dell’altro.

Di questo clima di accaparramento e di rincorsa egoistica alla soddisfazione personale e familistica, sono specchio fedele questi ultimi cinque anni di governo Berlusconi.
Dichiarare – come ha fatto l’ex premier in campagna elettorale – che è cosa irrealistica e contraria al legittimo stato delle cose, la pretesa del figlio dell’operaio di godere delle stesse opportunità del figlio del professionista, non è stato affermare semplicemente qualcosa di politicamente scorretto. È piuttosto affermare qualcosa di ampiamente condiviso da parte di una classe media sempre più preoccupata di perdere le proprie prerogative e che sa che oggi potrà conservarle solo negandole a chi le pretende, trasformandole in privilegi di casta.
Privilegi che non pensa più di poter mantenere attraverso una rete diffusa di solidarietà, ma solo attraverso una rete clientelare e familistica.

Il risvolto giuridico di questa nuova condizione antropologica è rappresentato dal Neo-contrattualismo, dottrina che vuole lo stato sempre meno difensore dei principi generali fondativi della nazione e sempre di più semplice arbitro neutrale di contese individuali.
In questa prospettiva categorie quali "interesse collettivo " e "bene collettivo" vengono, un passo dopo l'altro, messe in discussione. Il bene collettivo è in questa prospettiva un controsenso: se è di tutti non è di nessuno e, soprattutto, non ha valore. Fino ad arrivare al paradosso, ampiamente esplicitato, che l'unica possibilità di difesa per i beni ambientali consiste nella loro privatizzazione.
Quindi spiagge private. Boschi privati. Montagne private.
Acqua privata.

Come ci si oppone a tutto questo? Intanto dimostrando che, ammesso che l’idea dell’egoismo individuale come propulsore della crescita abbia una qualche validità, ce l’ha in una prospettiva di crescita illimitata. E smette di avere completamente quando si entra in una fase in cui la creazione del reddito comporta una distruzione di ricchezza maggiore


Salvaguardia di beni che non possono essere sottratti al godimento e, quindi, al controllo della collettività.
L’idea che la tutela dei beni naturali possa avvenire solo attraverso la loro privatizzazione, perché solo un interesse privato può opporsi efficacemente ad altri interessi privati che puntino al loro incontrollato sfruttamento va radicalmente rigettato, perché porta alle conseguenza inaccettabile che un bene naturale possa essere riconosciuto solo in quanto trasformato in merce.

La prospettiva ambientalista è una prospettiva olistica.
La prospettiva che ci troviamo di fronte è una prospettiva che può essere evitata solo con una presa di coscienza collettiva e una altrettanto collettiva assunzione di responsabilità.
I processi di partecipazione e di creazione di sentire comune, di condivisione hanno un ruolo cruciale. I nemici sono i “particellatori” della vita: le comunicazioni unidirezionali, i trasporti individuali, i non luoghi, le negazioni delle specificità e ricchezze locali.

mercoledì 10 maggio 2006

Da dove passa la faglia

L’economia stagnante ha una implicazione, forse banale, ma che non viene spesso ricordata: ogni nuova ricchezza genera inevitabilmente una nuova povertà.
Se non c’è un aumento generale della ricchezza, se il PIL non cresce, ci si può arricchire solo a scapito di qualcun’altro. E se in questi anni di economia immobile c’è chi si è arricchito, allora altri si sono inevitabilmente impoveriti.

Il voto delle ultime politiche, ci viene ripetuto, ha evidenziato una Italia spaccata in due. In tanti hanno provato a spiegarci quale fosse la natura di questa lacerazione, non solo politica, ma sociale, economica, culturale, addirittura antropologica.
Ma se oggi c’è uno spacco dove prima non c’era, cosa e chi ha separato, chi ha visto sotto i propri piedi aprirsi la crepa prima e poi il precipizio? Chi si ritrova ora ai margini della faglia, e cosa vede allontanarsi dall’altra parte?

Lontano da questo nuovo dirupo, in territori opposti, i ricchi e i poveri erano separati da una pianura ampia, ma pure prima percorribile, fatta di abitudini, di possibilità, di amicizie, di luoghi e di rapporti: era questa la grande area di compensazione della società, il luogo delle mediazioni e della possibilità di realizzazione delle aspirazioni. Era questo il territorio, senza particolari soluzioni di continuità, della classe media.
Ed è proprio qui, tranciando questo territorio a metà che si è aperta la faglia, e aprendosi ha separando fratelli e amici che ora si guardano dai lembi opposti della ferita, senza più capirsi e sempre più da lontano.

Questo nuovo solco, tracciato con chirurgica precisione da cinque anni di governo Berlusconi e da questi poi rivelato con disarmante sincerità, getta in due fazioni contrapposte chi pensa che sia un dovere della società garantire a tutti le stesse opportunità e coloro che pensano che le corsie privilegiate di cui gode il figlio del professionista non siano incidenti di una società imperfetta, ma diritti acquisiti e doverosamente trasmissibili per via ereditaria.
Fra chi pensa che ogni accumulo di ricchezza contragga un debito sociale e chi quel debito non solo non riconosce, ma che anzi ritiene un diritto non pagare le tasse.

A Molfetta, piccola città di provincia con una struttura sociale fino a qualche anno fa relativamente omogenea, senza clamorose ricchezze e senza troppe povertà disperanti, questa frattura si avverte dolorosamente nel terrore di chi si ritrova dal lato privilegiato e teme di essere risucchiato dall’altro.
Ed ecco che c’è chi scende in campo a difesa della nuova ricchezza e del nuovo status, senza rimorsi o sensi di colpa, motivato a fare quadrato per proteggere il nuovo reticolo di rapporti sociali e di amicizie, di reciproci riconoscimenti, magari ipocriti, untuosi e temporanei, ma che insieme si sostengono e consolidano.
Ecco che ci si mobilita a difesa del diritto di indossare un “tennis” o un completino pitonato, contro coloro che in quel vestito o nel braccialetto, in quella esibizione cafona, vedono il simbolo della loro rinuncia a poter mandare il figlio in palestra, dopo l’ultimo aumento dell’affitto.

Questa ferita dai lembi dolenti, che ha profondamente modificato la geografia sociale, trova una puntuale corrispondenza nel paesaggio politico. Chi sa leggere riesce a vedere nell’elenco dei candidati e nelle sue ramificazioni, il nuovo reticolo delle solidarietà di casta e di censo, riesce a scorgere le chiusure egoistiche e l’arroccamento su privilegi, magari da poco ottenuti e proprio per questo doppiamente irrinunciabili. Quei nomi sulle liste segnano con geometrica precisione le trame delle ingordigie e dei favori, le raccomandazioni e le sudditanze; si scorgono i grandi disegni di conquista, come le voglie di rivalsa o i desideri tenuti a freno a stento nella logica del branco, le grandi aspettative o l’attesa per le briciole che possano cadere dal tavolo.

Chi riuscirà a ricucire la ferita?

giovedì 21 luglio 2005

1.

Esiste una contraddizione intrinseca e non risolvibile fra democrazia e libertà di coscienza da un lato e l'imperio sulle anime e sui corpi che la chiesa cattolica pretende di esercitare dall'altro. Esiste una asimmetria fra noi che riconosciamo legittimità a ogni pensiero che non neghi la legittimità degli altri pensieri (salvo poi combatterli) e il pensiero cattolico che rifiuta radicalmente la possibilità di essere posto sullo stesso piano degli altri pensieri (che accetta sì il dialogo, ma solo per convincere). Questa asimmetria, semplicemente, non è sanabile. Se il conflitto rimanesse allo stadio di dialogo, magari fra sordi, poco male. Il guaio è che diventa impossibile persino la convivenza quando in virtù di un pensiero che non accetta competizione, la Chiesa pretende di limitare le scelte anche di quanti non condividono il suo pensiero. E badate bene che chi ha deciso di aprire il conflitto su questa contraddizione non siamo stati noi laici, ma Ratzinger invitando i non credenti a comportarsi "come se Dio esistesse", perché l'unico fondamento possibile per l'etica è, sempre secondo Ratzinger, il pensiero cattolico. Perché la Chiesa ha deciso di intraprendere questa che ha tutta l'aria di voler essere una "battaglia finale"?Perché è arrivata a dire che la genetica è una "patologia della ragione" che mette in pericolo la dignità umana e la sacralità della vita? La genetica e la scienza in genere ci mettono di fronte all'evidenza che non c'è soluzione di continuità fra l'uomo e il resto degli esseri viventi. L'uomo non ha alcun diritto di chiedere per sé un posto privilegiato in questo mondo, eppure se ne è appropriato totalmente. Affermare la non separazione fra uomo e natura porta non alla creazione di ibridi e chimere, ma alla riscoperta attraverso la scienza della sacralità della natura. Significa scoprire l'immanenza del trascendente (perdonatemi l'ossimoro). Significa tornare a vedere nella bellezza una epifania della divinità. Significa tornare ad affermare, come facevano i pagani, l'empietà dei cristiani che negano la sacralità della natura.Perché considerare un crimine distruggere un embrione umano e cioè quattro cellule che hanno la consapevolezza di un'ameba, mentre invece viene considerato normale macellare un maiale che ha l'intelligenza di un bambino di tre anni? Qui si salda l'alleanza fra questa Chiesa e l'ordine mondiale basato sulla crescita continua, quello che non può permettersi neanche di immaginare alcun limite al consumo, e che per questo non può permettere che il consumatore percepisca la relazione fra la fettina nel domopack e il vitello sottratto alla madre e macellato. Ma proprio questa alleanza pone la Chiesa in difficoltà, proprio quando percepisce l'idea del limite e vede che la distruzione delle risorse ambientali sta compromettendo l'esistenza di miliardi di uomini ai quali continua a dire "andate e moltiplicatevi", ai quali continua a vietare l'uso del preservativo, ai quali non sa dire altro che "l'amore al di fuori del sacramento del matrimonio è peccato". Uomini e donne che volentieri accetterebbero il purgatorio in una vita ultraterrena pur di evitare l'inferno in questa. Ma che possiamo avere a che fare noi con una Chiesa che ha santificato chi negava la morfina ai malati terminali perché sosteneva che il dolore"avvicina a Cristo"? Che possiamo avere a che fare noi con una Chiesa che nel suo nuovissimo catechismo (quello distribuito negli autogrill) ancora non è capace di dire "no senza se e senza ma" alla pena di morte?

mercoledì 13 ottobre 2004

Esistono gli ecologisti “buoni”?

Sembra, a giudicare da quello che si legge sui giornali o si sente in tv, che gli ecologisti si dividano in due categorie.Alla prima apparterrebbero persone educate e ammodo, ispirate dai buoni sentimenti che provano tutti coloro che sono conviti che la difesa dell’ambiente sia una questione che riguarda tutti allo stesso modo e che, pertanto non si possa non essere ecologisti. “Tutti sulla stessa barca” (come ebbe modo di dire qualche anno fa l’avv. Agnelli): persone impegnate in opere di sensibilizzazione sulla necessità di difesa degli ultimi paradisi ambientali e delle specie in via d’estinzione, gioiosi bambini che con guanti e palette ripuliscono le spiagge, simpatici romantici disposti a vivere per mesi in cima ad un albero pur di difenderlo, ma anche automobilisti catalizzati e massaie differenziate. Insomma belle facce in cui potersi riconoscere.La seconda sarebbe composta, invece, da millantatori e menagrami, divulgatori di falsità e pseudoscienze (vedi per esempio gli interventi mensili di Tullio Regge su “Le Scienze” o quello, recente, su “La Repubblica”) o addirittura da “eco–catastrofisti”, secondo la definizione del ministro della Difesa Martino: nemici della civiltà e dello sviluppo, un vero pericolo per la libertà: “peggio di comunisti e nazisti”. Il fatto è che da quando cose che abbiamo sempre creduto abbondanti e a disposizione di tutti come l’acqua, l’aria pulita, le spiagge o il paesaggio, hanno cominciato a scarseggiare, sono diventate merci. E grazie ad anni e anni di campagne ecologiche e di impegno militante, ciò che è venduto come “ecologico” trova più facile collocazione sul mercato. “Eco” e “bio” fanno, insomma, tendenza.Così esiste oggi l’eco–turismo, gli eco–incentivi, i detergenti ecologici per frutta e verdura, l’eco–diesel; mi è capitato di leggere persino di “eco–molecole per la pelle” su di un giornale femminile. Gli ecologisti, diciamo così, “buoni” servono insomma al sistema delle imprese e del consumo. Gli ecologisti “cattivi”, invece, pensano che il nucleare non sia una gran bella idea e soprattutto da un punto di vista economico, pretendono di intervenire sui piani regolatori, hanno da ridire sul fatto che in Italia si privilegi il trasporto su gomma piuttosto che quello su rotaia e che si voglia fare il ponte sullo Stretto, pensano che nella gestione dei rifiuti ci metta troppo spesso lo zampino la mafia, chiedono controlli sulla salubrità dei posti di lavoro e misure per contenere il traffico cittadino: insomma una rottura. Tant’è che vengono spesso guardati male anche dalla sinistra e dai sindacati.Ho l’impressione che questa distinzione fra “ecologismi”, inutile per capire il ricchissimo mondo degli ambientalisti, possa essere molto utile a chi governa un paese o, da amministratore, si trovi a gestisce un territorio. Poniamo, per esempio, che questo amministratore voglia consentire l’edificazione di un albergo, in deroga a piano regolatore e a leggi di tutela. Non gli farebbe forse comodo dire che le voci di protesta che si levano dalla città provengono solo da ecologisti in malafede pilotati dalle forze politiche di opposizione? E se trovasse una associazione di “ecologisti buoni” disposta, magari in cambio di un piatto di lenticchie, ad attribuirgli una patente di legittimità ecologia, la cosa non risulterebbe ancora più credibile? (Non è casuale, naturalmente, il riferimento alla vicenda di Torre Calderina; a proposito della quale vorrei però far notare come a Molfetta l’accordo di programma sia stato avviato dalla passata amministrazione e a Bisceglie, dove c’è un’amministrazione di sinistra, i cittadini che si oppongono alla lottizzazione di Cala Pantano, di quella parte cioè dell’oasi di protezione in territorio biscegliese, siano accusati di essere in combutta con la destra).

Perché un’amministrazione non può non dirsi “ecologista”.
Se chiedete ad un qualunque cittadino, anche a uno di quelli abituato ad abbandonare bottiglie di birra vuote sui parapetti in riva al mare e a lasciar cadere le cartacce dai finestrini delle automobili, se ritiene che sia importante fare qualcosa per l’ambiente, questo vi risponderà, immancabilmente di sì. Le amministrazioni, di qualunque colore esse siano, devono presentarsi alla pubblica opinione come attente all’ambiente, perché tutti ormai “devono” pensarsi ecologisti: fa parte della natura umana avere di sé una buona opinione e ritenere di nutrire buoni sentimenti. E quelli ecologisti sono dei buoni sentimenti che, inculcati ormai nei bambini sin dalle scuole materne tutte le persone educate dovrebbero provare. (Chi organizza le ronde contro gli extracomunitari “non può” pensare di essere un razzista e chi vuole la guerra non può non pensare di sé di essere un grande amante della pace). Per molte amministrazioni uno degli obiettivi strategicamente più rilevante della propria attività comunicazionali diventa così quello di farsi percepire come attente alle questioni ambientali, qualunque sia la politica del territorio.Il risultato paradossale è che riferendosi a principi di ispirazione ecologica (spesso le parole si trasformano in feticci) si realizzano opere e intraprendono azioni che non solo non hanno nulla di ecologico ma che, se non fosse per la casualità delle proposte, apparirebbero ispirati a desideri di saccheggio rabbioso del territorio.

Accordi di programma e conferenze di servizi.
Oggi la politica di gestione del territorio dell’amministrazione Minervini, appare basata su due pilastri eretti, in verità, dalla passata amministrazione: il ricorso sistematico a accordi di programma e a conferenze di servizi indette dallo Sportello Unico per modificare il PRG e l’utilizzo di Agenda 21 per ottenere finanziamenti europei. Gli accordi di programma e le conferenze di servizi vorrebbero rispondere alla necessità, in vero reale, di una gestione del territorio più flessibile e rapida rispetto a quella consentita dai PRG. Per la verità appare a molti strano che a Molfetta si ricorra a questi strumenti all’indomani dell’approvazione del Piano; ma a questo viene ribattuto che il piano è nato vecchio e che contiene molte valutazioni sbagliate. Naturalmente sarebbe molto istruttivo andare a rileggere i verbali dei vecchi CC e vedere quali obiezioni venivano allora mosse al piano e da chi e confrontare poi quelle obiezioni e quelle persone con le richieste di varianti che vengono oggi presentate; ma non è questo ciò di cui voglio parlare.A me interessa far notare come, ricorrendo in maniera sistematica a conferenze di servizi e accordi di programma, si finisca per sottrarre di fatto il controllo del territorio al CC (la cui rappresentatività è peraltro ormai da anni fortemente limitata dalla crisi dei partiti) e all’interesse della collettività, per affidarlo al casuale gioco delle pressioni e degli interessi privati rappresentati da personaggi politici che, non rispondendo ad alcun partito, non rappresentano ormai null’altro se non la propria famiglia e i propri clienti.

Dove sta andando Molfetta?
Poniamo che un privato abbia, in un punto qualunque del territorio cittadino, la disponibilità di un suolo e che lo ritenga idoneo allo svolgimento di una qualche attività imprenditoriale. Può rivolgersi allo Sportello Unico per le Imprese che provvederà a convocare una Conferenza di Servizi. Se la Conferenza di Servizi esprime parere favorevole la richiesta di variante al PRG passa al Consiglio Comunale per il voto finale.I tempi sono rapidissimi.La Conferenza è un organismo tecnico che esprime il proprio parere sulla base di vincoli e norme. All’interno della Conferenza è il solo sindaco a rappresentare l’indirizzo politico che la città si è dato. È il solo sindaco che esprime un giudizio di compatibilità politica della variante rispetto al piano. (D’altra parte c’è chi sostiene che in questa fase anche il sindaco ha un ruolo tecnico, di garanzia, visto che sarà poi il CC ad esprimere il giudizio politico definitivo).A questo punto la richiesta di variante arriva in CC con un positivo giudizio di fattibilità tecnica, incrostato di aspettative economiche da parte di chi ha presentato il progetto, dei progettisti, delle maestranze e di chi sta a guardare quello che può diventare un utile precedente: al di fuori di qualsiasi logica di piano, come si potrà dire no a Tizio dopo che si è detto di sì a Caio? Se si può fare eccezione per uno perché non per l’altro? Si può anche capire quanto la cosa diventi interessante per chi deve coltivare clientele e costruirsi un consenso (e questo, lo ripeto, a prescindere dall’orientamento politico, come dimostrano le vicende di Altamura e di Gravina) e si può anche capire quanto peseranno le capacità di coalizzarsi e quindi di esercitare pressioni da parte di correnti e schegge impazzite che potranno chiedere qualunque cosa in cambio del sostegno all’amministrazione. Ma si può supporre che non mancheranno neanche le vendette o le ritorsioni. L’accoglibilità o meno di un progetto dipende ormai da regole che non sono più certe. E non mi si venga a dire che esistono comunque delle leggi di tutela (PUTT e quant’altro) che pongono paletti insuperabili perché così non è, come dimostrano le vicenda di Torre Calderina e Cala Pantano o gli scempi che si stanno commettendo nell’ASI dove, tutti i vincoli ambientali e paesaggistici sono stati rimossi dalle stesse norme tecniche di attuazione del PUTT. E si può anche capire quanto far valere le ragioni degli interessi collettivi diventi difficile per un sindaco, l’unico, forse, che possa avere un qualche interesse elettorale, oltre che morale, a rappresentarli.

Agenda 21
Molfetta è stata la prima città in Puglia ad aderire ad Agenda 21 nel 1998.Il principio di fondo di A21 è il cosiddetto “sviluppo sostenibile”: basato sull’idea che l’attività umana non debba pregiudicare le condizioni di esistenza delle future generazioni, A21 sostiene che investire oggi in compatibilità ambientale significa – in tempi medi – acquisire un forte vantaggio competitivo su quei soggetti economici e quelle collettività che non lo avranno fatto. Le risorse non rinnovabili, (petrolio, metalli, territorio) sono destinati ad esaurirsi nel giro di pochi decenni: chi comincia a pensarci da subito non potrà non trovarvi un vantaggio. Ma, siccome il passaggio a modelli di vita non basati sul consumo è contrario a quello che è ormai il senso comune, è indispensabile avviare, attraverso processi ampi di partecipazione, la presa di coscienza da parte della collettività del valore delle risorse ambientali.Forum, Consulte, Progettazione partecipata. Sono tutti strumenti che un Comune che aderisca ad A21 deve porre in essere. E ci deve credere. L’UE è molto generosa con chi aderisce ad A 21. Ma il suo è un investimento in democrazia, in partecipazione e nella crescita della consapevolezza delle problematiche legate all’ambiente.

Intrinsecamente incompatibili.
Non è difficile vedere come questi due modi di pensare la gestione del territorio siano in forte contrasto fra di loro. E non è neanche difficile capire come, per una città con il bilancio così fortemente condizionato dai vari contenzioni persi sugli espropri edilizi degli anni Settanta, senza la possibilità di spremere più di tanto le tasche dei cittadini, senza una concreta possibilità di venire in possesso dell’impianto di compostaggio che, costruito con soldi pubblici, rende parecchi miliardi di vecchie lire all’anno al suo attuale gestore, la possibilità di ottenere finanziamenti attraverso i POR appaia come ossigeno puro.Mettiamoci nei panni di un amministratore: capiamolo, compatiamolo persino. Ha bisogno dell’approvazione del Forum di A21 ma, se questo cominciasse a funzionare veramente, potrebbe dargli molte seccature: vallo a spiegare ai partecipanti del Forum (tutti volontari che sottraggono tempo al lavoro e alla famiglia pur di portare avanti punti di vista ambientalisti) che esistono equilibri politici per mantenere i quali bisogna chiudere un occhio sul paesaggio e sull’ambiente.Rinunciare ai POR? E perché mai? La tentazione di usare in maniera strumentale A21 è forte.

Delibere ecologiste?
È di questi giorni un pacchetto di delibere di giunta che approvano progetti che, a quanto scritto nelle delibere stesse, sarebbero “conformi con gli obiettivi del Forum Agenda XXI”.Il Forum in realtà non si è ancora tenuto e quella presunta conformità è stata dedotta sulla base di principi generali quanto astratti, espressi in una relazione stilata dal responsabile del Forum, forse come introduzione ai lavori dei gruppi tematici, peraltro ancora in corso.Il mero elenco di quei progetti è stato in effetti portato a conoscenza dei partecipanti ad un solo dei gruppi tematici, i quali avevano chiesto di saperne di più, esprimendo anche seri dubbi sulle valenze ambientali di alcuni di essi.

Tre scenari
Quello che è successo, forse solo un incidente di percorso, dispiega tre possibili scenari:
1) L’amministrazione fa in modo che il forum non funzioni nella sostanza ma che gli consenta comunque di compiere tutti gli atti formali necessari e ad ottenere finanziamenti.
2) Il Forum di A21 va avanti fra grandi difficoltà e molte incomprensioni con l’amministrazione. L’amministrazione si impegna a far funzionare il Forum facendolo crescere fino a diventare un luogo di alta partecipazione democratica. Si avviano le progettazioni partecipate di alcune opere pubbliche e si ottengono alcuni finanziamenti.
3) Scontro frontale fra il Forum e l’amministrazione. I partecipanti al Forum decidono di ricorrere all’associazione nazionale degli enti aderenti ad A21 per chiedere di invalidare i lavori e bloccare tutti i finanziamenti. Credo che, a questo punto, Tommaso Minervini debba chiarire ai molfettesi se il suo voler essere "il sindaco di tutti" voglia dire cercare di accontentare il più alto numero possibile di interessi particolari, o, piuttosto, farsi carico degli interessi della collettività nel suo complesso. Che è cosa profondamente diversa, come pensa, ne sia certo, la maggior parte dei suoi elettori.