venerdì 9 novembre 2007

Intervento al Congresso regionale di Legambiente Puglia, 10 novembre 2007

Quando l’anno scorso stava per essere abbattuto il complesso di Punta Perotti abbiamo messo in rete, come sapete, le immagini riprese da una webcam a scandire il tempo che mancava all’abbattimento. Era un modo per richiamare l’attenzione su di noi, sulla nostra terra, sulla Puglia. Era come se volessimo dire: “Guardate che anche da noi succede qualcosa di buono, a volte”.
Perché chi ci guarda da fuori, sapete anche questo, ci vede come una regione che è fra le quattro a rischio mafia (anche se la nostra mafia, più che di morti ammazzati, che pure non mancano, è fatta di colletti bianchi, di amoralità familistica, di riti peloritani).
Chi ci vede da fuori vede una regione che ospita le tre centrali elettriche più inquinanti d’Italia e che detiene il record degli accessi negati ai litorali. Vede una regione il cui sistema educativo e formativo è dominato da nepotismi e baronie e scosso da continui scandali come quello dell’Università, con gli esami comprati e venduti per soldi o sesso.
Chi ci guarda da fuori ha visto la grande mobilitazione delle primarie del 2005 e della elezione di Nicki Vendola. Ma ha visto anche una regione il cui governatore, ormai a metà mandato, ammette malinconicamente: “Ho il potere ma non cambia quasi nulla”.
Chi visita il nostro territorio resta colpito dal vedere, accanto a tante bellezze, la catastrofe antropologica che sta distruggendo il nostro paesaggio che è fatto ormai di abusivismo, di periferie anonime e infinite, di non luoghi e iperluoghi che si moltiplicano, di vecchie aree industriali in abbandono che invece di essere bonificate e rivitalizzante vengono sostituite da nuove che verranno a loro volta abbandonate alla fine della vita economica degli impianti in un continuo rincorrere i finanziamenti pubblici.
Potrei, come tutti voi, continuare in questo elenco chissà per quanto ancora.
Ci preoccupiamo del modo in cui il mondo ci vede: è naturale che sia così. È nei confronti del mondo che ci sentiamo responsabili del nostro territorio.

Ma oggi vorrei provare a coinvolgervi in un esercizio che mi pare meno comune fra noi ambientalisti: invece di chiederci come ci vede il mondo vorrei invitarvi a riflettere su come appare il mondo visto dalla Puglia.
Che poi, in un mondo sempre più globalizzato, è come chiedersi: “Di che cosa possiamo vivere, come vogliamo vivere?”.
Questo mondo ci fa paura? Riusciremo a reggere il confronto con gli altri paesi? Abbiamo una collocazione nel mondo, un’identità forte? Che cosa possiamo offrire? Che cosa ci aspettiamo che possa arrivare sulle nostre spiagge? Che cosa vogliamo che parta dai nostri porti?
Come possiamo contribuire alla bellezza del mondo?

Se ci poniamo queste domande ci accorgiamo che ad esse pochi hanno già dato molte risposte escludendo molti dal poter dare un qualche contributo. E sulla base delle risposte di quei pochi sono state fatte scelte politiche e strategiche che vanno assai al di là delle deleghe che gli elettori hanno dato ai loro rappresentanti.
Si tratta di scelte che spesso non sono neanche state discusse nei luoghi che dovrebbero essere deputati a ciò. Scelte che sono state date come inevitabili, scontate, che sembrano non prevedere alternative all’interno dell’orizzonte di ciò che si immagina sia lo stato delle cose.
Eppure si tratta di scelte di rilievo straordinario, oggi lo vediamo bene perché il mondo è cambiato, è diventato piccolo e fragile. Quello che fino a pochi anni fa sembrava riguardare esclusivamente le realtà locali oggi riguarda immediatamente e senza mediazioni l’intero pianeta.
Per esempio la Puglia ha scelto di produrre molta più energia di quanta non ne consumi. E ha scelto anche di sfruttare il suo essere un ponte lanciato verso l’Oriente per proporsi come grande terminale per le merci in arrivo e in partenza (più per quelle in arrivo, in verità, che per quelle in partenza). Queste scelte non ricadono in capo all’attuale governo regionale che le ha ereditate dal complesso politico economico che ha governato la nostra regione con Distaso e Fitto e che non ha smesso di governare la Puglia (vedi la dichiarazione di Vendola che ho citato prima), tant’è che l’attuale amministrazione non ha potuto che farle proprie, certo cercando in maniera indubbiamente meritoria di attenuare molti degli aspetti negativi.
Lo sappiamo che queste scelte hanno conseguenze sociali, economiche e ambientali molto grandi.
Erano possibili altre scelte? Non è una domanda retorica e non cerco risposte astratte. Mi chiedo se gli equilibri sociali, politici ed economici, se le aspettative dei singoli e delle organizzazioni, se le agenzie di socializzazione e se il sistema di valori potevano consentire altre risposte. E soprattutto mi chiedo se la classe dirigente che prende queste scelte sappia guardare sufficientemente lontano per garantire pace e prosperità.

L’ambientalismo è diventato ormai uno sguardo imprescindibile per capire il mondo.
Nel documento congressuale si parla giustamente di nuova centralità dell’ambientalismo.
An Inconvenient Truth ha mostrato un pianeta che si sta riscaldando troppo e troppo in fretta. Ha mostrato cosa succederà quando si scioglieranno le barriere di ghiaccio che trattengono i ghiacci terrestri della Groenlandia e dell’Antartide e questi scivoleranno in un oceano sempre più caldo il cui livello comincerà a salire velocemente. Questo accelererà ulteriormente lo scioglimento delle barriere che lasceranno passare sempre più ghiaccio terrestre in mare. Basterà un aumento medio della temperatura del pianeta di tre gradi per far sì che intorno alla metà del secolo (ma secondo alcuni assai prima) tutto il ghiaccio si sarà sciolto o finito in mare. Il livello delle acque si sarà allora sollevato di sei metri.
E i porti pugliesi saranno tutti sommersi.
Ma anche se non lo fossero avrebbero perso, insieme a tutto il Mediterraneo, l’attuale centralità nel sistema delle rotte commerciali in favore del passaggio a nord ovest: perché mai passare da Suez se si può attraversare l’Artico? I nostri politici sono capaci di vedere così lontano?

Eppure commetteremmo un errore se pensassimo che il sistema economico possa essere spaventato da prospettive catastrofiche. L’abbiamo visto con l’uragano Katrina. Lo stiamo vedendo in Iraq. In Italia l’avevamo già visto con il terremoto in Irpinia e persino con quello in Friuli (da cui è cominciato il boom del Nord-Est). Lo vediamo nelle scelte come quella del mose. C’è una intera filiera che a partire dai disastri riesce a sfruttare le emergenze che ne conseguono.
Nell’emergenze e nei disastri, come nella sospensione delle regole, il capitalismo più o meno sano, più o meno colluso con la criminalità organizzata, vede moltiplicare le occasioni di profitto. Legambiente lo sa bene. Noi in Puglia lo sappiamo bene.
C’è un eccesso di ottimismo nel documento congressuale quando si dice che l’iperliberismo è stato sconfitto. Io non ne sarei tanto sicuro e, soprattutto, anche se fosse vero, dovremmo comunque prendere atto del fatto che un gran numero di garanzie e di diritti sono già stati profondamente intaccati dagli anni della Tatcher, dei Bush e di Berlusconi. Purtroppo non ripartiamo da zero, ma da molto sotto.

Nonostante ciò noi sappiamo anche che è con le forze dell’economia e del capitalismo che dobbiamo confrontarci se non per governare la transizione, almeno per cercare di orientarla. Sappiamo che sono le imprese che creano ricchezza, lavoro, occupazione, a volte persino innovazione. Con esse, almeno con alcune di esse, è giusto tentare alleanze. Allen Ginsberg una volta disse: “Il mondo è una montagna di merda: se vuoi cambiarlo devi prenderlo a manciate”. Ma che si tratti di giri di valzer o di convergenze strategiche non dobbiamo mai dimenticare che queste alleanze hanno un prezzo caro sotto l’aspetto simbolico e comunicazionale.

Un’altra cosa che, come ambientalisti, facciamo spesso è quella di credere che l’interesse collettivo sia un dato evidente, senza bisogno di ulteriore specificazione.
Ma quanto è comune il bene comune?
Nel documento congressuale si parla di “patriottismo dolce”: un’espressione molto bella, nel suo cercare di sfumare una contraddizione spesso evidente fra gli interessi di piccole comunità che rifiutano opere che a loro appaiono dannose, ma la cui utilità diventa visibile osservando la cosa su una scala più ampia. Dobbiamo tenere come riferimento la scala nazionale, in questo senso non possiamo essere “quelli che dicono sempre no”.
Ma definire come prioritari, seppure in maniera “dolce”, gli interessi nazionali, che posizioni ci fa assumere di fronte al resto del mondo? Quando noi diciamo che le ricchezze del pianeta sono finite, diciamo anche che arriverà inevitabilmente il momento in cui la ricchezza potrà essere solo divisa, non più creata. E questo momento, oggi che il picco di produzione del petrolio sembra superato, è probabilmente assai prossimo. Come conciliare allora il legittimo desiderio di migliorare le proprie condizioni di vita da parte degli italiani con la consapevolezza che tutto quanto avremo in più sarà inevitabilmente tolto ad altri?

“Ambientalismo del sì” è forse uno slogan felice, ma non può farci dimenticare che le questioni in argomento sono che cosa intendiamo per “crescita”, “sviluppo” e “progresso”.
Come si può continuare a parlare di crescita se ci si riferisce a quella dei consumi quando questa, ormai con evidenza clamorosa, non può che sfociare nell’estinzione della specie umana o in nuovo medioevo? E come si può pensare di continuare ad utilizzare il PIL come strumento di calcolo della ricchezza di un paese e come base degli indicatori finanziari quando il prodotto interno lordo si alimenta e cresce anche grazie ai danni e ai disastri che proprio la crescita produce e, persino, del pasticciato tentativo di porvi rimedio?
Bisognerebbe spiegare in maniera chiara che la crescita economica della Campania dell’era del Commissario per l’emergenza rifiuti è stata alimentata proprio da quella emergenza e proprio dalla crescita dei rifiuti.
Vogliamo che entri nel vocabolario ambientalista la parola “crescita”? Ci sto, ma a patto che si utilizzino indicatori capaci di porre il segno meno davanti all’incendio di una foresta o allo speco di acqua ed energia che invece oggi fanno lievitare gli introiti degli enti gestori. Facciamo in modo che i morti sul lavoro pesino pesantemente in negativo sul PIL.
Ma qual è lo scopo degli indicatori finanziari? Incanalare i flussi finanziari. Attirare il denaro dove potrà produrre altro denaro. Ad un ambientalista (ma anche ad una persona qualunque) perché dovrebbero stare a cuore simili indicatori? Quello che può interessargli sono indicatori utili a segnalare se in un paese si riesce ad essere felici.
È dagli anni Settanta che si verifica in tutti i paesi occidentali un paradosso: più cresce il reddito e meno la gente è felice. Gli economisti lo chiamano “paradosso di Easterlin”
Si tratta di un paradosso perfettamente derivabile dalla teoria neoclassica: per i marginalisti ogni unità in più di un certo bene o fattore di produzione crea minore utilità (cento euro sono assai più utili per poveraccio che per un ricco) quindi per ottenere una crescita costante della soddisfazione c'è bisogno di quantità crescenti di beni e la curva che ne risulta sarà asintotica, dunque:
1) una semplice crescita lineare del PIL provocherà inevitabilmente un aumento di insoddisfazione
2) anche un incremento esponenziale della disponibilità di beni e servizi implica al limite un incremento infinito di insoddisfazione
Purtroppo l'economia politica è una disciplina sempre più trascurata, "troppo filosofica". Molto meglio l'economia aziendale e la scienza delle finanze

Il documento congressuale è chiaro. La scelta di Legambiente è chiara.
E con esso mi trovo in ampia sintonia. C’è un aspetto però che non condivido, anzi più che un aspetto si tratta di un modo di porre.
Le criticità dell’impianto teorico-politico che io ho cercato qui di evidenziare, nel documento vengono invece sfumate. Non è che non capisco le ragioni del perché di questa scelta, ma non lo condivido perché è proprio nelle criticità, nel non avere risposte precostituite, nel sapere che le soluzioni vanno trovate di volta in volta, insomma nell’approccio non ideologico che c’è la bellezza della sfida che Legambiente si pone.

La questione cruciale, quella su cui tutti noi dobbiamo seriamente riflettere, è che se è vero che il mutamento del disegno istituzionale in atto in Italia, la trasformazione dei partiti in organizzazioni leggere, assegna un ruolo nuovo alle associazioni, un ruolo di difesa e conservazione degli interessi collettivi e per certi versi anche un ruolo di organizzazione della partecipazione democratica, dobbiamo essere in grado di rispondere a questa sfida dandoci strutture adatte.
Abbiamo mi pare due alternative agire come una lobby (lo dico nel senso buono della parola) capace di organizzare gli interessi “puntuali”, oppure essere portatori di una visione del mondo che veda nella democrazia e nella partecipazione una assunzione collettiva di responsabilità, più che una mobilitazione a difesa di diritti veri o presunti.
Ecco io ho l’impressione che il documento congressuale oscilli fra questi due punti di vista, propendendo per il secondo ma forse temendo che oggi Legambiente non sia in grado di essere che il primo.
È un ambientalismo difficile quello di Legambiente, ma è proprio per questo che ho scelto di starci.

Nessun commento: