mercoledì 10 maggio 2006

Da dove passa la faglia

L’economia stagnante ha una implicazione, forse banale, ma che non viene spesso ricordata: ogni nuova ricchezza genera inevitabilmente una nuova povertà.
Se non c’è un aumento generale della ricchezza, se il PIL non cresce, ci si può arricchire solo a scapito di qualcun’altro. E se in questi anni di economia immobile c’è chi si è arricchito, allora altri si sono inevitabilmente impoveriti.

Il voto delle ultime politiche, ci viene ripetuto, ha evidenziato una Italia spaccata in due. In tanti hanno provato a spiegarci quale fosse la natura di questa lacerazione, non solo politica, ma sociale, economica, culturale, addirittura antropologica.
Ma se oggi c’è uno spacco dove prima non c’era, cosa e chi ha separato, chi ha visto sotto i propri piedi aprirsi la crepa prima e poi il precipizio? Chi si ritrova ora ai margini della faglia, e cosa vede allontanarsi dall’altra parte?

Lontano da questo nuovo dirupo, in territori opposti, i ricchi e i poveri erano separati da una pianura ampia, ma pure prima percorribile, fatta di abitudini, di possibilità, di amicizie, di luoghi e di rapporti: era questa la grande area di compensazione della società, il luogo delle mediazioni e della possibilità di realizzazione delle aspirazioni. Era questo il territorio, senza particolari soluzioni di continuità, della classe media.
Ed è proprio qui, tranciando questo territorio a metà che si è aperta la faglia, e aprendosi ha separando fratelli e amici che ora si guardano dai lembi opposti della ferita, senza più capirsi e sempre più da lontano.

Questo nuovo solco, tracciato con chirurgica precisione da cinque anni di governo Berlusconi e da questi poi rivelato con disarmante sincerità, getta in due fazioni contrapposte chi pensa che sia un dovere della società garantire a tutti le stesse opportunità e coloro che pensano che le corsie privilegiate di cui gode il figlio del professionista non siano incidenti di una società imperfetta, ma diritti acquisiti e doverosamente trasmissibili per via ereditaria.
Fra chi pensa che ogni accumulo di ricchezza contragga un debito sociale e chi quel debito non solo non riconosce, ma che anzi ritiene un diritto non pagare le tasse.

A Molfetta, piccola città di provincia con una struttura sociale fino a qualche anno fa relativamente omogenea, senza clamorose ricchezze e senza troppe povertà disperanti, questa frattura si avverte dolorosamente nel terrore di chi si ritrova dal lato privilegiato e teme di essere risucchiato dall’altro.
Ed ecco che c’è chi scende in campo a difesa della nuova ricchezza e del nuovo status, senza rimorsi o sensi di colpa, motivato a fare quadrato per proteggere il nuovo reticolo di rapporti sociali e di amicizie, di reciproci riconoscimenti, magari ipocriti, untuosi e temporanei, ma che insieme si sostengono e consolidano.
Ecco che ci si mobilita a difesa del diritto di indossare un “tennis” o un completino pitonato, contro coloro che in quel vestito o nel braccialetto, in quella esibizione cafona, vedono il simbolo della loro rinuncia a poter mandare il figlio in palestra, dopo l’ultimo aumento dell’affitto.

Questa ferita dai lembi dolenti, che ha profondamente modificato la geografia sociale, trova una puntuale corrispondenza nel paesaggio politico. Chi sa leggere riesce a vedere nell’elenco dei candidati e nelle sue ramificazioni, il nuovo reticolo delle solidarietà di casta e di censo, riesce a scorgere le chiusure egoistiche e l’arroccamento su privilegi, magari da poco ottenuti e proprio per questo doppiamente irrinunciabili. Quei nomi sulle liste segnano con geometrica precisione le trame delle ingordigie e dei favori, le raccomandazioni e le sudditanze; si scorgono i grandi disegni di conquista, come le voglie di rivalsa o i desideri tenuti a freno a stento nella logica del branco, le grandi aspettative o l’attesa per le briciole che possano cadere dal tavolo.

Chi riuscirà a ricucire la ferita?

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